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Cronaca

Il Governo lavora alla prevenzione dei femminicidi, noi ci chiediamo perché abbiamo bisogno di essere protette

Giulia ha avuto la “colpa” di essere una donna libera. E, purtroppo, a questa società le donne libere non piacciono

Il cadavere della vittima è stato ritrovato, il presunto omicida è stato arrestato in Germania ed ha scelto l’estradizione, la fiaccolata silenziosa è stata fatta: ancora qualche giorno, magari quelli che servono ad arrivare alle manifestazioni del 25 Novembre, e anche il nome di Giulia Cecchettin, che è l’unica cosa che resta di lei, andrà a finire nel dimenticatoio, come tutti gli altri nomi delle donne vittime di violenza. Perché è così che funziona in questo stato. 

In uno stato dove la Ministra delle Pari Opportunità del governo Meloni, Eugenia Roccella, dichiara: “È fondamentale che le madri educhino i figli maschi ad avere rispetto delle donne e della loro libertà, fuori dagli stereotipi di genere", come se ai padri non toccasse alcuna responsabilità riguardo l’educazione dei propri figli maschi, tirandoli fuori dai giochi, alimentando ancora, di conseguenza, gli stessi stereotipi che dice di voler tenere fuori, oltre alla convinzione che quella contro la violenza di genere sia una battaglia che dobbiamo combattere solo noi donne, è evidente che ci sia qualcosa che non funziona. E che diventa inutile qualsiasi tipo di manifestazione, slogan, iniziativa, se a cantarcela e a suonarcela rimaniamo sempre sole, noi donne. È altrettanto evidente, dunque, che questo qualcosa che non va, dobbiamo aggiustarlo tutti insieme, non solo noi donne. Anzi, forse è giunto il momento che sia l’altro genere a fare un passo in più. Se proprio dobbiamo scendere in piazza tra qualche giorno, vogliamo la presenza di più uomini, se proprio dobbiamo commentare i recenti fatti di cronaca con dei post sui Social, ne vogliamo leggere di più scritti da mani maschili.

Giulia, così come tutte le donne morte ammazzate per mano del compagno, dell’ex, del marito, del padre, di qualsiasi uomo entri a far parte della loro vita per poi toglierla, ha avuto la “colpa” di essere una donna libera. E, purtroppo, a questa società le donne libere non piacciono. Sfido chiunque a negarlo. Perché questa società (siamo in Italia ed è l’anno 2023) permette ancora tutti i “se l’è cercato”, “cosa vuole se era ubriaca”, “ma come si è vestita”, “cosa ci fa in giro di notte da sola”, “non bisogna incontrare l’ex da soli”, e potremmo continuare all’infinito nell’elenco di tutte le giustificazioni che continuano ad essere utilizzate per mascherare una società evidentemente maschilista e ancora patriarcale. Dove se la donna sa o sa fare un po’ di più rispetto all’uomo, deve essere eliminata. 

Allora, ancor prima di invocare l’introduzione dell’educazione sessuale o di quella emotiva nelle scuole, educhiamo le nostre menti ad un pensiero diverso da quello che ci ha portati a contare le vittime di violenza di genere una ad una, fino a superare il numero 100 in questo 2023, al quale termine manca ancora più di un mese. Educhiamoci al rispetto dell’altro, all’empatia, all’ascolto delle esigenze, all’essere felici per i traguardi altrui. Educhiamoci, e questo appello è rivolto in particolare alle donne, a non accettare neanche uno sguardo che possa turbarci e metterci a disagio. A non rimanere zitte di fronte a battute che, sempre la società, ha finora normalizzato e che vanno ad alimentare la convinzione che, appunto, sono solo battute. No, non sono solo battute. 

Cominciate, se proprio volete fare qualcosa che non resti solo uno slogan sentito e risentito, a non chiederci più se siamo fidanzate, o sposate, o se abbiamo intenzione di avere figli, ai colloqui di lavoro, ad esempio. Cominciate a pagarci con retribuzioni eque e adeguate alle nostre ore di lavoro. Abituatevi a non etichettare, categorizzare, a non dividere il mondo in due  colori: rosa e blu. Dove il blu è il colore della forza, della virilità, e il rosa quello debole, “il colore delle femminucce”. Forse solo così potremo cominciare a pensare di essere liberi. Perché in uno stato dove le donne non possono sentirsi libere senza la paura di essere calpestate, non è libero nessuno. 

Giulia Cecchettin aveva 22 anni ed è morta. E, insieme al suo corpo martoriato e scaraventato in un canale, tra qualche giorno seppelliremo un altro pezzo di tutte noi donne che ancora siamo in vita ma che moriamo dentro ogni volta che viene uccisa una di noi. Ci stiamo sgretolando pian piano, noi donne. E nessuno sta facendo qualcosa per aiutarci. Siamo stanche ed arrabbiate, noi donne. Se dobbiamo continuare ad agire da sole, perché “sono le madri che devono educare i figli maschi”. E se è la mente di una donna, per di più Ministro, a partorire un pensiero così, allora vuol dire che siamo veramente fottute.

“Non c'è un solo posto dove, come donna, puoi essere sicura in Italia - ha detto Elena, la sorella di Giulia, che nonostante il dolore ha deciso di metterci la faccia e di non stare zitta, rivolgendosi direttamente e senza riserve al sistema -. Lo Stato ha fallito. Rendi responsabile quell'amico che fa sempre battute inappropriate, che tratta le donne come oggetti. Qualcosa deve cambiare”.

E non ce ne frega se in altre nazioni europee il numero dei femminicidi è più alto, un dato che viene divulgato quasi come un traguardo, come un qualcosa che debba renderci fieri di essere italiani. Pensate al papà di Giulia cosa può importare che la figlia sia stata la 103esima vittima e magari se avesse vissuto in Germania sarebbe stata invece la 111esima. Giulia era una donna, una giovane donna, non è un numero nelle vostre statistiche, nè l’ennesimo volto da aggiungere agli sfondi dei programmi Tv o delle locandine per la Giornata Internazionale dell’Eliminazione della Violenza di Genere. Il Governo Meloni promette di incrementare le misure di prevenzione per proteggere le donne dalla violenza. Noi ci chiediamo perché abbiamo ancora bisogno di essere protette. 

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