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Il Duomo di Avellino accoglie la reliquia del Beato Rosario Livatino: il giudice ragazzino

Questo evento ha visto esposta la camicia indossata dal Beato nel giorno del suo tragico omicidio, un segno tangibile della sua fede incrollabile e del suo coraggio nel difendere la giustizia

Nella giornata odierna, il Duomo di Avellino si è trasformato in un luogo carico di spiritualità e devozione, accogliendo la reliquia del Beato Rosario Livatino. Questo evento ha visto esposta la camicia indossata dal magistrato nel giorno del suo tragico omicidio, un segno tangibile della sua fede incrollabile e del suo coraggio nel difendere la giustizia. La reliquia è stata accolta con emozione e rispetto da fedeli. Il Duomo, solenne e maestoso, è diventato il punto focale di una giornata dedicata alla memoria di un eroe della giustizia e della fede. La camicia indossata dal Beato Rosario Livatino è un simbolo potente e commovente della sua dedizione al servizio della giustizia. Il tessuto, testimonianza di un momento tragico ma significativo della sua vita, è stato esposto con il massimo rispetto e cura. Fedeli e visitatori hanno potuto avvicinarsi, pregare e riflettere di fronte a questo frammento di storia che continua a ispirare generazioni.

Il Duomo di Avellino accoglie la reliquia del Beato Rosario Livatino

Mons. Arturo Aiello cita Foscolo: "E mentre io guardo la tua pace, dorme / Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge"

La giornata ha raggiunto il culmine con la celebrazione della Santa Messa, presieduta dal Vescovo di Avellino, Mons. Arturo Aiello. La liturgia è stata arricchita dalla presenza della reliquia, trasformando la cerimonia in un momento di preghiera ancora più intenso e significativo. Durante la Messa, Mons. Aiello ha guidato i fedeli in una riflessione sulla vita e sul martirio del Beato Rosario Livatino, sottolineando il suo esempio di coraggio e dedizione nella difesa dei valori cristiani e rigetto della violenza mafiosa: "Rosario aveva assimilato la legge nel suo quotidiano, se ne era cibato. Il giudice ragazzino aveva investito completamente se stesso in quei principi, finanche all'estremo sacrificio . Il 21 settembre 1990, pensava di dirigersi al lavoro, ma in realtà stava percorrendo la via della morte. L'anti-stato richiedeva il silenzio, cercando di spegnere i difensori della giustizia. Oggi rifletto sul fatto che questa camicia potrebbe sembrarci stretta. Una camicia piegata con l'amore unico di una madre. Ora, essa giace davanti a noi, posta come un simbolo sull'altare. Questo è il corpo e il sangue di Gesù, come diciamo spesso, ma è anche il sangue dei martiri. Il giudice Livatino è un eroe della giustizia, o meglio, un anti-eroe, perché era un uomo rispettoso, credente e un professionista che ogni mattina si recava al lavoro, consapevole che la sua dedizione avrebbe giovato alla comunità. Questa camicia macchiata di sangue diventa una bandiera, un vessillo che ondeggia sul nostro Sud. Questa statura deriva dalla Sicilia, una terra che ha subito le crudeltà di una guerra senza precedenti". 

L'omaggio al Beato Rosario Livatino è un richiamo alla responsabilità e all'impegno per la giustizia, ispirando tutti a seguire il suo esempio coraggioso. La presenza della reliquia nel Duomo di Avellino è stata un momento di incontro tra la storia e la fede, un'occasione per rinnovare l'adesione a valori che continuano a essere fondamentali per una società che, ancora oggi, continua a subire l'influsso virulento della criminalità organizzata. Una piaga che, come dimostrano le ultime vicende giudiziarie, non ha risparmiato neanche il territorio irpino. Quella di oggi, per tutti gli avellinesi, deve rappresentare un'esperienza di profonda spiritualità e riflessione, ma non solo. La reliquia esposta è diventata un simbolo tangibile della forza della fede e dell'impegno per la giustizia, un lascito che deve continuare a ispirare e guidare questa generazione e anche quelle future; sempre Sub Tutela Dei

"STD"

STD: Tre lettere enigmatiche, che a lungo hanno intrigato gli investigatori impegnati nel caso dell'omicidio del giudice Rosario Livatino. Queste tre lettere erano una costante presenza, apparse frequentemente alla fine dei suoi scritti e degli appunti personali. STD, Sub Tutela Dei, "Nelle mani di Dio" - una supplica a Dio per guidare i suoi passi, scelte e decisioni, in definitiva, la sua intera vita.La vita di Livatino iniziò il 3 ottobre 1952 a Canicattì, in provincia di Agrigento. Suo padre Vincenzo era un impiegato comunale e Rosario fu il frutto dell'amore tra Vincenzo e Rosalia Corbo. Crescendo in una famiglia tranquilla, Rosario fu ben educato, rispettoso, diligente nello studio e nei suoi doveri.Si diplomò al Liceo Classico Ugo Foscolo di Canicattì e si unì all'Azione Cattolica, prima di iscriversi nel 1971 alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo. Già durante l'adolescenza e la giovinezza, il binomio tra fede e diritto cominciò a definire la sua esistenza, diventando uno dei tratti distintivi del suo sviluppo come individuo, cristiano, intellettuale e professionista. Nel 1975, a soli ventitré anni, ottenne la laurea cum laude e successivamente vinse un concorso pubblico, diventando vicedirettore presso l'Ufficio del Registro tra il 1977 e il 1979.

"Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili"

Mentre perseguiva la sua carriera nel campo del diritto, partecipò anche al concorso per diventare magistrato, emergendo tra i primi nella graduatoria, nonostante la sua giovane età. Nel 1978, divenne magistrato e fu assegnato al Tribunale di Caltanissetta, per poi essere trasferito a quello di Agrigento nel 1979. Ad Agrigento, svolse il ruolo di sostituto procuratore fino al 1989, prima di essere nominato giudice a latere.Durante questi anni, Livatino si confrontò con indagini complesse e delicate sulle attività della mafia, esaminando le intricatissime relazioni tra mafia, imprenditoria e politica. Partecipò a indagini come quelle sui finanziamenti regionali alle cooperative giovanili di Porto Empedocle, sui casi di fatturazioni false e gonfiate per opere mai realizzate e su episodi di corruzione. Inoltre, applicò per uno dei primi in Italia la confisca dei beni ai mafiosi.

Uno dei suoi successi più significativi fu il maxiprocesso contro le cosche di Stidda di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera, iniziato nel 1987. Questo processo richiese l'utilizzo di una palestra trasformata in aula bunker. Alla fine, furono emesse 40 condanne, rappresentando un duro colpo per la mafia agrigentina, che cercava di contrastare Cosa Nostra e i Corleonesi che cercavano di estendere il loro dominio nelle regioni centro-meridionali della Sicilia. Rosario Livatino coniugava la sua carriera con una condotta riservata, basata su valori etici profondi e una fede cristiana radicata. La sua etica professionale si rifletteva nelle sue scelte e decisioni, all'interno e al di fuori dell'ufficio, nei suoi rapporti sociali e amicizie, dimostrando la sua integrità e credibilità.

Il 21 settembre 1990, tra Canicattì e Agrigento, Livatino fu tragicamente assassinato in un agguato mentre si dirigeva al lavoro. La sua morte scosse la comunità giuridica e provocò una serie di polemiche riguardo alle condizioni di lavoro dei magistrati in Sicilia. La verità sulla sua morte emerse attraverso tre processi giudiziari. Il primo processo portò all'arresto degli esecutori materiali dell'omicidio, mentre il secondo processo coinvolse altri membri del gruppo di fuoco. Infine, nel terzo processo, furono individuati i mandanti dell'omicidio. I colpevoli furono condannati, portando giustizia per la morte di Livatino. Giovanni Paolo II lo definì un "martire della giustizia e indirettamente della fede" nel 1993, avviando il processo di beatificazione. Nel 2021, Papa Francesco autorizzò la sua beatificazione, rendendo Rosario Livatino il primo magistrato beato nella storia della Chiesa.

Oggi, la memoria di Rosario Livatino vive attraverso le case di accoglienza, e persino un olio prodotto in suo onore a Rosarno. La sua storia è stata raccontata in libri e documentari, testimonianza del suo coraggio e impegno nella lotta alla mafia. Il "giudice ragazzino", uomo di fede e di giustizia, ci lascia in eredità poche parole che graffiano la coscienza e pesano come macigni: "Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili".

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