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Il primato irpino: storia del mal di vivere

di Danilo Iacobacci

Avellino e provincia vantano un primato nazionale e lottano, con pari dignità, per affermarsi sulle città delle nazioni nordeuropee e non solo: la competizione da primato è l’essere luoghi in cui il mal di vivere giunge a conseguenze estreme, sino a portare abitanti di ogni età a privarsi della vita.

Ho sempre coltivato (e praticato) l’idea che ognuno debba occuparsi di ciò che conosce; per tale ragione, mi sono sempre (o, almeno, quasi sempre) astenuto dal parlare di ciò che non conosco. Coerentemente, ringraziando Avellino Today ed il suo Direttore che mi ospita, non parlerò del suicidio; francamente ne ignoro le cause, la genesi, le motivazioni, e l’ultima cosa che farei in vita mia è togliermi, appunto, la vita.

Ignoro inoltre perché taluni luoghi, più che altri, spingano i loro abitanti al desiderio di morire; desiderio così forte da darsi la morte. Comprendo i casi in cui si desideri morire in ragione di patologie irreversibili, ma quell’argomento (difficilissimo) non è oggetto di questo mio scritto.

Sono però dell’idea che la cosiddetta “società civile irpina” (cui spero di degnamente appartenere ormai da tempo) non possa più tacere su di un fenomeno, dilagante, che tocca persone fragili e risolute allo stesso tempo; fenomeno che non viene attenuato dal rumore delle manifestazioni avellinesi (ed in taluni casi irpine) in grande stile, né dal benessere (ristretto a pochi amici) di operazioni politiche e societarie che Avellino e provincia, ormai da tempo e con ciclicità perfetta, generano per il tramite degli eletti (“eletti” nel senso di amministratori di enti locali et similia) ed a beneficio di “grandi elettori”. Spesso le operazioni in questione si succedono e stratificano al punto tale che si confondono i piani e che, talvolta, l’eletto e l’elettore si scambiano i ruoli, beneficiandosi a vicenda.

Avellino è così (mi dicono).

Ascoltando quei pochi coi capelli bianchi che ancora conosco (seguiti dai cori di giovani “bianchi dentro”), mi sono fatto l’idea che tutto sia partito, quantomeno come metodo e come mentalità, dai grandi politici irpini del passato, i quali hanno (recte: avrebbero) dato la stura ad un modo di ragionare misto tra rassegnazione ed aspettativa.

In sostanza, il voto agli “eletti” viene dato (in molti casi) o per riconoscenza (rispetto ad un favore avuto) o per gratitudine (rispetto ad una promessa di favore) e quasi mai si guarda (recte: si guarderebbe) al se il soggetto aspirante alla carica elettiva (poi conseguita) sia capace o meno.

Ignoro se sia davvero così, epperò parrebbe in alcuni casi di sì.

Dicevo che non parlo di ciò che non conosco, tuttavia mi pare troppo frequente il caso di politici, dai livelli più bassi a quelli apicali, che amministrano ciò che non conoscono. Epperò, poiché racimolano valanghe di voti –  devo ammettere –  hanno ragione loro (è la democrazia).

Posso però dire, comunque, che, al netto della frequente anomalia della non scolarizzazione di molti uomini politici, ciò che mi colpisce è come essi osino ambire (e poi conseguire) cariche amministrative e/o politiche, gravide di responsabilità, senza avere alcuna conoscenza e/o competenza specifica. Ciò sovente avviene senza neppure che costoro, eletti, abbiano (prima della elezione) raggiunto un qualche traguardo professionale o personale degno (o quantomeno minimo).

Il fenomeno è trasversale, e parte dal piccolo comune ed arriva in parlamento attraversando gli enti intermedi.

Io vedo una forte correlazione tra i suicidi ad Avellino ed in irpina e ciò che Avellino e l’irpinia sono divenute nei decenni: si è passati da un (apparente?) benessere ad un malessere.

Possiamo dire che si è passati dall’illusione democristiana alla disillusione odierna.

Io vedo una forte correlazione tra la assenza di prospettive (percepita, reale o presunta che sia) ed i suicidi avellinesi ed irpini.

Mi pare di vedere che gli anziani si sentano (o forse siano) abbandonati a sé stessi in un luogo inospitale e, altrettanto, mi pare di osservare che le nuove leve si sentano rassegnate ad un futuro incerto ed in dovere di scaricare la colpa su altro da sé.

In realtà, la chiusura fisica/geografica, in cui Avellino e l’irpina si trovano, forse alimenta la chiusura mentale. Guardandosi intorno, anche in pieno centro ad Avellino città, ci si sente circondati (almeno dalle montagne); ciò comporta un senso di soffocamento anche visivo che, ad esempio, non viene vissuto nelle località di mare, ove l’orizzonte tende a infinito.

Ecco, un cambio di prospettiva potrebbe essere utile a cercare di privarci del triste primato oggetto di queste riflessioni; anche perché è indubbio che solo la politica potrà salvare Avellino e l’Irpina, rendendola un luogo bello, ospitale e ricco di prospettive (e percepito come tale).

Dovremmo provare ad insegnare agli abitanti irpini a guardare il mondo con la prospettiva di una città di mare, guardando l’orizzonte senza vederne la fine e pensando, quindi, che le opportunità sono infinite.

D’altra parte, gli irpini sono gente capace, lo hanno spesso dimostrato sia “in patria” che fuori.

Gli abitanti sono, spesso, di gran lunga migliori dei governanti dalle nostre parti, tutto sta a prenderne consapevolezza; sarebbe bello se si potesse iniziare dal momento elettorale, ma nel concreto oggi è davvero una operazione assai difficile (proprio per il radicato metodo da anni vigente della gratitudine e/o della aspettativa).

Epperò, se almeno le nuove leve – in blocco  – iniziassero a pensare con la propria testa, magari nel tempo, insieme al cambio generazionale, Avellino e l’irpina potrebbe vivere un cambio culturale tale da portare dal male di vivere al desiderio di vivere.

di Danilo Iacobacci

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